L’arte come sorgente di una comunità ideale
Non sò proprio se posso farlo; mi sembra veramente illuminante: riporto l'articolo trovato sulla rete e salvato tempo fà, non ho il link scusate, se offendo qualcuno o rompo le regole sul copy right, ditemelo. grazie
L’arte come sorgente di una comunità ideale
9 Giu 2008 di Franco Del Moro
Il male viene fatto senza sforzo, naturalmente, è opera del fato; il bene è sempre il prodotto di un’arte. CHARLES BAUDELAIRE
Una nuova specie di partigiani dovrà un giorno nascere…
La cosa migliore che possiamo fare per noi stessi e per gli altri è mettere a frutto i nostri talenti, ossia fare quello che ci viene meglio fare e che facendolo ci fa stare bene. Ovvero quello per cui siamo nati.
È una scelta etica e biofila, giacché quando questo avviene non facciamo altro che mettere le nostre qualità al servizio della vita, la propria e quella altrui, e instauriamo con la realtà un rapporto di tipo creativo; dunque i frutti delle nostre azioni, di qualunque specie siano, possono essere equiparati ad opere d’arte.
Il vero problema è che sebbene tutti abbiano un “dono” innato, non tutti scoprono quale esso sia; non tutti arrivano a essere consapevoli del loro talento naturale e a poterlo usare; non tutti scoprono qual è la peculiarità unica e irripetibile data loro dalla natura.
Questo accade a causa di interferenze e forze contrarie di origine esterna: una educazione deficitaria, l’appartenenza a una comunità fortemente omologata e omologante, l’essere quotidianamente sommersi da spazzatura di tipo culturale e psicologico… ma anche interna: la paura di rischiare, di mettersi in gioco, di lasciare il battuto sentiero della monotonia, di andare troppo dentro sé stessi…
Per questi e altri motivi, molti trascorrono tutta la vita senza essere mai riusciti a scoprire cosa li appagasse maggiormente, quale fosse la loro speciale predisposizione.
Non mettendo a frutto alcun talento disertano la loro missione, e sebbene questo possa dare una qualche soddisfazione a chi è di natura istintivamente ribelle, in realtà quelli che più ci rimettono sono proprio loro stessi, in quanto esercitare i propri talenti è la cosa più gratificante e rivitalizzante che ad ogni essere umano può succedere.
È la differenza che passa fra sognare di vivere, e vivere per davvero.
Io stento a credere che esistano esseri umani privi di una loro specifica virtù, sono anzi convinto che il giorno in cui tutti potranno mettere i loro talenti al servizio di sé e degli altri allora nascerà una comunità ideale. Sarà un luogo dove sulla carta d’identità, alla voce ‘Segni particolari’, allora si potrà scrivere: “ha una predisposizione innata alla cura delle piante”; “capisce istintivamente gli animali”; “ha il dono di saper riparare qualsiasi tipo di apparecchiatura meccanica”; “è fortemente affine allo spirito del mare”; “ha spiccate doti di tipo artistico, soprattutto musicali”; “ha una speciale capacità empatica che gli permette di capire i problemi del prossimo”; “ha una innata predisposizione per il disegno e la pittura”; “ha un notevole ingegno tecnico unito a una grande abilità nel lavoro manuale”… e questi saranno considerati i veri caratteri distintivi di ogni individuo.
Una comunità ideale è dunque quella che incoraggia ognuno ad essere veramente sé stesso, propenso a pensare con la sua testa e a non andare contro la sua intima natura.
Una comunità ideale è costituita da una rete solidale e non gerarchica che permette ad ognuno di mettere i suoi talenti a disposizione di tutti, ed avere quelli di tutti sempre a sua disposizione.
Naturalmente è un sogno utopico, e temo, per come siamo fatti, rimarrà tale. In un mondo così ricco si formerebbero immediatamente gruppi di potere autoritario o emergerebbero personalità avide e dominanti che cercherebbero di controllare più risorse possibili e soffocare le altre.
Pur sapendo questo, resta tuttavia importante perseguire questa meta ideale perché se è vero che non potrà mai esistere una comunità siffatta, tuttavia immaginandola è sempre possibile realizzarne un pezzetto all’interno del proprio microcosmo.
E riuscire a fare questo sarebbe già tantissimo.
Il potere soprannaturale dell’arte
Quello che gli artisti quando sono veramente ispirati fanno, è di portare un po’ di energia celeste sulla terra sotto forma di opera d’arte.
Non è detto che ne siano consapevoli, così come non è neppure detto che tutta l’opera di un artista sia effettivamente sempre intrisa di queste vibrazioni eccellenti. Molti poi sono solo abili artigiani che ritengono di agire sotto alte spinte quando invece non fanno altro che sfruttare con maestrìa una indubbia abilità tecnica, ma senza l’apporto di quel ‘quid’ che solo una genuina ispirazione può fornire.
La differenza fra un manufatto o, per meglio dire, un “prodotto dell’ingegno” che è intriso di questa bellezza soprannaturale e uno che invece ne è privo è difficile da descrivere, ma è percepita a livello inconscio e istintivo da (quasi) tutti.
Platone nel “Fedro” descrive chiaramente il processo in virtù del quale la contemplazione della bellezza produce una elevazione dello spirito, sebbene questo contatto non sortisca lo stesso effetto in tutte le persone:
Ogni anima umana per sua natura ha contemplato il vero essere, altrimenti non sarebbe penetrata in questa creatura che è l’uomo. Ma non per tutte le anime è agevole, partendo dalle cose terrene, far affiorare nella memoria quel vero essere, non per quelle che ebbero lassù una visione rapidissima di quelle realtà, non per quelle che, quando sono crollate a terra, ebbero mala sorte cosicché, stravolte verso l’ingiustizia da certe compagnie, dimenticarono quanto videro. Proprio poche rimangono che possono ancora ricordare in modo bastante; e, queste, quando scorgono qualche imitazione delle cose del cielo, vanno in estasi, pur non sapendo di che patimento si tratti perché la percezione di ciò non è sufficientemente profonda.
È dunque evidente che l’energia dell’ispirazione, quando c’è, incrementa la sensibilità delle persone, e più una persona è sensibile, più sarà ricettiva alla presenza di questa energia; mentre quando non c’è suscita consenso e apprezzamento soltanto a livello mentale, ma lascia tranquilla e assopita la sfera sensibile.
Una immagine che mi piace usare è quella dell’abitante di un villaggio che si trova al centro di una palude. Stanco di bere l’acqua stantìa della palude questa persona parte con un carro pieno di otri vuote, va su alte montagne, cerca e trova sorgenti di acqua pura, riempie gli otri e torna al villaggio. Svuotati gli otri nella cisterna comune alle case di tutto il villaggio, riparte. In cambio di questo servizio gli altri membri del villaggio si occupano della sua casa e dei suoi campi.
I sentieri che il “portatore di acqua pura” percorre sono noti soltanto a lui, e il suo viaggio non può che essere solitario, perché se nella metafora ho parlato di alte montagne, nella realtà queste montagne sono dentro di lui, nei territori della sua anima ai quali solo lui ha libero accesso.
Per questo gli artisti quando creano sono necessariamente solitari. Sono in viaggio.
Si può discutere a lungo sui canoni estetici necessari per dare un peso ad ogni espressione artistica, ed è certamente utile farlo al fine di non prendere lucciole per lanterne; tuttavia quando un’opera d’arte, al di là dei canoni, riscuote uno speciale interesse ed esercita un influsso sensibile su un cospicuo numero di persone anche oltre l’epoca in cui è stata concepita, allora è lecito presumere che quell’opera sia pregna di questa energia luminosa che si è riversata sulla terra tramite la mano dell’artista. E questo è sempre vero a prescindere dalle caratteristiche che secondo l’epoca l’arte dovrebbe avere per essere definita tale, e a prescindere anche dal grado di consapevolezza dell’artista che l’ha creata. Questo è il motivo per cui ogni tanto emergono nuovi linguaggi e nuove forme espressive che pur essendo totalmente in contrasto con le tradizioni precedenti riscuotono un tale consenso da parte delle persone da imporsi nel corso della storia vincendo l’ostruzionismo delle accademie: proprio in virtù della forza e della qualità dell’energia in esse contenute.
Per questo gli artisti, quando sono realmente ispirati, possono a tutti gli effetti essere considerati una sorta di medium: attraverso varchi nascosti, che loro però riescono istintivamente e spontaneamente ad attraversare, prelevano un po’ di luce dal cielo e la rendono accessibile a tutti sulla terra, dopo averla racchiusa con le loro mani in quel guscio speciale che è l’opera d’arte.
La loro funzione è, tutto sommato, simile a quella degli sciamani in alcune società arcaiche, come quelle dell’Asia centro-settentrionale o dall’America del Nord.
Compito degli sciamani è togliere il malessere alle persone e alla società stessa, malessere la cui origine è data dalla perdita dell’anima e da principi nocivi che ne hanno occupato il posto. Lo sciamano avrà dunque il duplice compito di far ritrovare l’anima e, dunque, scacciare le negatività che portano al decadimento del singolo, come dell’intera comunità: «…compito che rende necessario il viaggio nell’altro mondo presso gli dei, allo scopo di chiedere il loro appoggio, presentare i sacrifici e le offerte e ottenere la liberazione dell’anima, viaggio ascensionale che lo sciamano effettuerà facendo rullare il tamburo fino a raggiungere lo stato di trance, e arrampicandosi su una betulla.» (1).
Non è difficile rilevare le affinità della pratica sciamanica con quella artistica, sia per quanto riguarda l’uso di strumenti musicali per ottenere uno stato alterato di coscienza, sia per quanto riguarda lo stile di vita ricco di rituali e simboli che altro non servono se non a mettere in contatto lo sciamano/artista con il mondo sovrannaturale.
La differenza principale fra le due figure forse è da vedersi nel fatto che il primo è pienamente padrone delle sue facoltà psichiche e delle tecniche per risvegliarle in virtù della sua predisposizione innata; mentre l’artista è padrone della tecnica ma non sempre ha un reale controllo sulla sua ispirazione, la quale infatti va e viene secondo ritmi e flussi di energia che per lo più esulano dalla sua volontà. Anche questa differenza tuttavia, se consideriamo la vita e l’opera di artisti veramente eccezionali (Dante, Leonardo, Mozart…) sembra scomparire e così, di fatto, nella nostra cultura i grandi artisti possono essere assimilati ai potenti sciamani delle culture tribali.
La loro arte è la nostra medicina.
Il silenzio degli angeli
Gli artisti vanno aiutati, incoraggiati e gratificati, altrimenti si spengono lentamente, come un fuoco a cui nessuno aggiunge altra legna. Lasciati soli, ad affogare nell’indifferenza non servono a nulla: né all’arte, né a sé stessi, né alla comunità a cui appartengono.
A dispetto della buona volontà degli artisti, le sorgenti da cui attingono la loro ispirazione, ahinoi, talvolta seccano. O, semplicemente, l’artista perde la spinta e la determinazione a ripetere il suo viaggio che, non di rado, è insidioso e sempre comunque faticoso.
La perdita di ispirazione è spesso conseguenza della perdita di motivazione, e questo avviene solitamente quando l’artista occupa una delle due estremità del suo possibile destino: o quando ha troppo successo, o quando ne ha troppo poco.
Ogni artista consapevole di questi rischi deve dunque porre un’attenzione speciale alla salvaguardia della sua motivazione, più che della sua ispirazione, perché la prima conduce alla seconda.
Questo induce a guardare da una prospettiva diversa l’atteggiamento vagamente narcisistico che tanto frequentemente si riscontra negli artisti.
A volte può sembrare che siano sempre in cerca di riconoscimenti e gratificazioni perché hanno un ego ipertrofico. In realtà ne hanno bisogno per essere continuamente motivati a “mettersi in viaggio”. Senza motivazione spesso non ce la fanno ad innescare quel processo psichico necessario per aprire il varco da cui l’energia creativa si materializza sotto forma di ispirazione, e che tramite loro viene cristallizzata nell’opera d’arte e consegnata alla terra e ai suoi abitanti.
Niente riconoscimenti significa niente motivazione, significa niente varco psichico, significa niente opera d’arte, significa niente cura a disposizione di tutti.
Ossia nessuno porterà più acqua pura al villaggio e tutti si dovranno accontentare di quella ristagnante delle paludi.
Come si vede, a isolare gli artisti ci rimettiamo tutti.
In una società sana dovrebbe essere compito delle istituzioni dare le giuste opportunità agli artisti che danno prova di essere portatori di un messaggio speciale, ma in questa società degenerata viziata da ideologie che rasentano la patologia e la nevrosi come mai prima nella storia umana, non c’è nemmeno da sperarlo.
Oggi solo esseri superiori, invisibili e ultraterreni, che hanno davvero a cuore il destino della nostra povera razza, e speriamo ci siano davvero, possono intercedere a favore dell’arte.
Oggi gli artisti possono confidare soltanto su supporti angelici, per continuare a esistere. Vista l’agonia della vita artistica e culturale nel nostro paese si potrebbe allora pensare che gli angeli non esistano. Invece io sono più propenso a credere che esistono, ma ci hanno abbandonato.
Troppe volte abbiamo dimostrato di essere una causa persa, di essere ostinatamente attaccati all’effimero e di non voler cambiare nonostante le molte promesse fatte.
Una enorme quantità di persone ha accettato l’ottusità e l’uniformità dei gusti come dimensione primaria dell’esistenza, e così gli piace, è appagata. E quando qualcuno non sente il bisogno di migliorare la sua condizione, nessuno ha il diritto di costringerlo, neppure gli dei.
Per questo semplicemente si sono messi in disparte e ci osservano in silenzio. Privati del loro sostegno i primi a languire, sommersi dalla spazzatura culturale che è diventata l’alimento più diffuso e ricercato dai più in quest’epoca, sono i veri artisti, i naturali costruttori di bellezza, i portatori di verità… i quali talvolta si vendicano dell’indifferenza degli spiriti rivolgendosi allora verso le forze più oscure, dando così vita a espressioni artistiche talmente corrotte e degenerate da far pensare che abbiano attinto più dalle viscere dell’inferno che dalle sorgenti del paradiso.
Si aprono così quelle fasi in cui predomina un’arte degenerata, intrisa di rabbia, violenza, di esempi negativi e, se consideriamo alcune delle più significative opere o mode di questi ultimi anni, si direbbe proprio che ci troviamo in una di queste fasi.
Ma io non penso che potrà durare per sempre, a nessuno – neppure ai più arrabbiati – piace, dopotutto, vivere soffrendo e andare incontro a tormentose agonie. Credo che quella attuale sia soltanto una fase dominata dal rancore degli sciamani verso gli dei da cui si sentono abbandonati.
Il fatto è che finché durerà questo impasse a progredire sarà soltanto la decadenza civile e culturale, con tutte le sue pesanti conseguenze. Non è neppure detto che il braccio di ferro si risolverà a nostro favore, forse, semplicemente, è terminato un ciclo e tutti gli sforzi per cercare di cambiare il nostro destino sono inutili.
Queste sono le parole di Gerald Wilkinson, il Direttore del Consiglio nazionale della Gioventù indiana, un indiano Cherokee che ha però studiato alla Sorbona:
Non basteranno le parole perché la gente capisca il significato della vita. È forse questa la ragione per cui l’uomo occidentale studia tanto ma conosce così poco. Forse è questo il motivo per cui la sua civiltà deve crollare prima che lui sappia cosa le sta succedendo. È forse questo il motivo per cui non può, o non vuole, cambiare il suo modo di vivere finché il suo modo di vivere non lo farà cambiare. Pensa di poter cambiare la sua vita cambiando le sue parole. È forse questa la sua vera lingua biforcuta. (…) Ora tutto sta giungendo al termine. Forse sarà un olocausto e forse no. Il modo in cui la gente lo gestirà deciderà come il mondo verrà ricomposto. Ora quando si parla di distruzione della terra si parla di stati politici e sistemi sociali e atteggiamenti psicologici. Non si sta parlando della fine della vita. Rimarranno gli uomini e torneranno ad imparare a vivere. Chi sopravviverà? Quelli che sono vicini alla terra, i custodi del suolo, che hanno imparato la lezione della terra, che hanno la saggezza della terra, che hanno imparato a sopravvivere. Loro sopravvivranno. (…) Quello che sta giungendo al termine è una perversione della vita, un cancro. Talvolta, per salvare la terra, certe cose – che stanno distruggendo la terra – devono essere distrutte. È un processo naturale. Né tu né io possiamo farci nulla. Quando le società diventano troppo malate o stanche per vivere, muoiono. Così come muore una pianta. Ora nessuno può sapere quel che succederà dopo che tutto andrà a rotoli. Nemmeno nelle profezie. Non è che qualcuno possa starsene lì a vedere. (…) E forse attraverso questo saremo capaci di creare un nuovo mondo, un mondo di esseri umani. Esiste un altro mondo. Un altro mondo sta arrivando. (2)
E io voglio credere che in questo nuovo mondo gli artisti occuperanno posti di rilievo e la ricerca dell’ispirazione sarà materia insegnata a scuola, prima dell’inglese e dell’informatica, semmai quest’altre due avranno ancora un senso.
L’attualità non mi conforta, ma continuo comunque a pensare che in questo momento, proprio ora, ci sia ancora speranza. L’arte può ancora disintossicarci dai veleni dal capitalismo e dal fetore dei media di massa, ma occorre agire in fretta e non lasciare che questi siano soltanto discorsi sulla carta.
Una nuova specie di partigiani dovrà nascere: coloro che lotteranno nel quotidiano, nelle piccole cose, contro la dittatura del brutto e i pretoriani del nulla, che ormai sono ovunque e controllano ogni espressione di civiltà: la cultura, la politica, la religione…
È inutile aspettarsi risultati dalle grandi ideologie, dai leader che governano il mondo e dai grandi movimenti di massa… tutte situazioni che paiono ricchissime di promesse di mutamento ma che poi, di fatto, assolvono soltanto al bisogno quotidiano di allevare illusioni.
L’unica rivoluzione possibile parte dal basso, da come si usa il proprio tempo, da quali abitudini si adottano, da come si nutre la propria anima, da quali sogni si coltivano, da come si costruiscono i propri rapporti sociali, da quale stile di vite si sceglie…
Se questo non succederà allora siamo destinati, come altre culture prima della nostra, ad estinguerci. L’ultima riflessione la traggo dalle parole della filosofa indiana Vimala Thakar (3), proferite nel 1994 durante un incontro con studenti e professori dell’Università di Brandbu (Norvegia):
Non è tutto oscuro malgrado le guerre, le contese, le perdite di sangue e le brutture che ci circondano. Ci sono anche raggi di sole e di speranza. Penso che gli esseri umani in quanto razza vogliano condividere la sofferenza degli uni e degli altri, così come le loro ricchezze, ma non sanno come fare e vanno a tentoni in questa ricerca. (…) Dobbiamo tracciare un cammino attraverso il caos, lo spargimento di sangue e le guerre vergognose che continuano. Vedo all’orizzonte della coscienza umana l’emergere laborioso di una nuova cultura, di una nuova cultura umanista, di una nuova cultura umana globale, di una spiritualità globale. È la scienza della vita e l’arte di vivere. Un impegno della razza umana a praticare la mutualità e la reciprocità, piuttosto che le identificazioni e le identità esclusive. So che l’Europa è oggi in una situazione esplosiva, voi avete la sensazione che non ci sia altro che caos e anarchia, ma io da qui osservo le correnti sotterranee che stano emergendo, non attraverso partiti politici o leaders conosciuti, ma gruppi sconosciuti e anonimi. Sono in corrispondenza e in contatto con più di 60 giovani gruppi di questo tipo in diverse regioni dell’India; provano a costruire qualcosa senza prestare attenzione alla distruzione che li circonda. Sono occupati a costruire per domani, soffrire oggi per costruire l’avvenire.
È tempo di scegliere in quale mondo vogliamo vivere la parte restante della nostra vita, quella delle generazioni future e, caso mai dovessimo ritornare, la prossima.
L’arte come sorgente di una comunità ideale
9 Giu 2008 di Franco Del Moro
Il male viene fatto senza sforzo, naturalmente, è opera del fato; il bene è sempre il prodotto di un’arte. CHARLES BAUDELAIRE
Una nuova specie di partigiani dovrà un giorno nascere…
La cosa migliore che possiamo fare per noi stessi e per gli altri è mettere a frutto i nostri talenti, ossia fare quello che ci viene meglio fare e che facendolo ci fa stare bene. Ovvero quello per cui siamo nati.
È una scelta etica e biofila, giacché quando questo avviene non facciamo altro che mettere le nostre qualità al servizio della vita, la propria e quella altrui, e instauriamo con la realtà un rapporto di tipo creativo; dunque i frutti delle nostre azioni, di qualunque specie siano, possono essere equiparati ad opere d’arte.
Il vero problema è che sebbene tutti abbiano un “dono” innato, non tutti scoprono quale esso sia; non tutti arrivano a essere consapevoli del loro talento naturale e a poterlo usare; non tutti scoprono qual è la peculiarità unica e irripetibile data loro dalla natura.
Questo accade a causa di interferenze e forze contrarie di origine esterna: una educazione deficitaria, l’appartenenza a una comunità fortemente omologata e omologante, l’essere quotidianamente sommersi da spazzatura di tipo culturale e psicologico… ma anche interna: la paura di rischiare, di mettersi in gioco, di lasciare il battuto sentiero della monotonia, di andare troppo dentro sé stessi…
Per questi e altri motivi, molti trascorrono tutta la vita senza essere mai riusciti a scoprire cosa li appagasse maggiormente, quale fosse la loro speciale predisposizione.
Non mettendo a frutto alcun talento disertano la loro missione, e sebbene questo possa dare una qualche soddisfazione a chi è di natura istintivamente ribelle, in realtà quelli che più ci rimettono sono proprio loro stessi, in quanto esercitare i propri talenti è la cosa più gratificante e rivitalizzante che ad ogni essere umano può succedere.
È la differenza che passa fra sognare di vivere, e vivere per davvero.
Io stento a credere che esistano esseri umani privi di una loro specifica virtù, sono anzi convinto che il giorno in cui tutti potranno mettere i loro talenti al servizio di sé e degli altri allora nascerà una comunità ideale. Sarà un luogo dove sulla carta d’identità, alla voce ‘Segni particolari’, allora si potrà scrivere: “ha una predisposizione innata alla cura delle piante”; “capisce istintivamente gli animali”; “ha il dono di saper riparare qualsiasi tipo di apparecchiatura meccanica”; “è fortemente affine allo spirito del mare”; “ha spiccate doti di tipo artistico, soprattutto musicali”; “ha una speciale capacità empatica che gli permette di capire i problemi del prossimo”; “ha una innata predisposizione per il disegno e la pittura”; “ha un notevole ingegno tecnico unito a una grande abilità nel lavoro manuale”… e questi saranno considerati i veri caratteri distintivi di ogni individuo.
Una comunità ideale è dunque quella che incoraggia ognuno ad essere veramente sé stesso, propenso a pensare con la sua testa e a non andare contro la sua intima natura.
Una comunità ideale è costituita da una rete solidale e non gerarchica che permette ad ognuno di mettere i suoi talenti a disposizione di tutti, ed avere quelli di tutti sempre a sua disposizione.
Naturalmente è un sogno utopico, e temo, per come siamo fatti, rimarrà tale. In un mondo così ricco si formerebbero immediatamente gruppi di potere autoritario o emergerebbero personalità avide e dominanti che cercherebbero di controllare più risorse possibili e soffocare le altre.
Pur sapendo questo, resta tuttavia importante perseguire questa meta ideale perché se è vero che non potrà mai esistere una comunità siffatta, tuttavia immaginandola è sempre possibile realizzarne un pezzetto all’interno del proprio microcosmo.
E riuscire a fare questo sarebbe già tantissimo.
Il potere soprannaturale dell’arte
Quello che gli artisti quando sono veramente ispirati fanno, è di portare un po’ di energia celeste sulla terra sotto forma di opera d’arte.
Non è detto che ne siano consapevoli, così come non è neppure detto che tutta l’opera di un artista sia effettivamente sempre intrisa di queste vibrazioni eccellenti. Molti poi sono solo abili artigiani che ritengono di agire sotto alte spinte quando invece non fanno altro che sfruttare con maestrìa una indubbia abilità tecnica, ma senza l’apporto di quel ‘quid’ che solo una genuina ispirazione può fornire.
La differenza fra un manufatto o, per meglio dire, un “prodotto dell’ingegno” che è intriso di questa bellezza soprannaturale e uno che invece ne è privo è difficile da descrivere, ma è percepita a livello inconscio e istintivo da (quasi) tutti.
Platone nel “Fedro” descrive chiaramente il processo in virtù del quale la contemplazione della bellezza produce una elevazione dello spirito, sebbene questo contatto non sortisca lo stesso effetto in tutte le persone:
Ogni anima umana per sua natura ha contemplato il vero essere, altrimenti non sarebbe penetrata in questa creatura che è l’uomo. Ma non per tutte le anime è agevole, partendo dalle cose terrene, far affiorare nella memoria quel vero essere, non per quelle che ebbero lassù una visione rapidissima di quelle realtà, non per quelle che, quando sono crollate a terra, ebbero mala sorte cosicché, stravolte verso l’ingiustizia da certe compagnie, dimenticarono quanto videro. Proprio poche rimangono che possono ancora ricordare in modo bastante; e, queste, quando scorgono qualche imitazione delle cose del cielo, vanno in estasi, pur non sapendo di che patimento si tratti perché la percezione di ciò non è sufficientemente profonda.
È dunque evidente che l’energia dell’ispirazione, quando c’è, incrementa la sensibilità delle persone, e più una persona è sensibile, più sarà ricettiva alla presenza di questa energia; mentre quando non c’è suscita consenso e apprezzamento soltanto a livello mentale, ma lascia tranquilla e assopita la sfera sensibile.
Una immagine che mi piace usare è quella dell’abitante di un villaggio che si trova al centro di una palude. Stanco di bere l’acqua stantìa della palude questa persona parte con un carro pieno di otri vuote, va su alte montagne, cerca e trova sorgenti di acqua pura, riempie gli otri e torna al villaggio. Svuotati gli otri nella cisterna comune alle case di tutto il villaggio, riparte. In cambio di questo servizio gli altri membri del villaggio si occupano della sua casa e dei suoi campi.
I sentieri che il “portatore di acqua pura” percorre sono noti soltanto a lui, e il suo viaggio non può che essere solitario, perché se nella metafora ho parlato di alte montagne, nella realtà queste montagne sono dentro di lui, nei territori della sua anima ai quali solo lui ha libero accesso.
Per questo gli artisti quando creano sono necessariamente solitari. Sono in viaggio.
Si può discutere a lungo sui canoni estetici necessari per dare un peso ad ogni espressione artistica, ed è certamente utile farlo al fine di non prendere lucciole per lanterne; tuttavia quando un’opera d’arte, al di là dei canoni, riscuote uno speciale interesse ed esercita un influsso sensibile su un cospicuo numero di persone anche oltre l’epoca in cui è stata concepita, allora è lecito presumere che quell’opera sia pregna di questa energia luminosa che si è riversata sulla terra tramite la mano dell’artista. E questo è sempre vero a prescindere dalle caratteristiche che secondo l’epoca l’arte dovrebbe avere per essere definita tale, e a prescindere anche dal grado di consapevolezza dell’artista che l’ha creata. Questo è il motivo per cui ogni tanto emergono nuovi linguaggi e nuove forme espressive che pur essendo totalmente in contrasto con le tradizioni precedenti riscuotono un tale consenso da parte delle persone da imporsi nel corso della storia vincendo l’ostruzionismo delle accademie: proprio in virtù della forza e della qualità dell’energia in esse contenute.
Per questo gli artisti, quando sono realmente ispirati, possono a tutti gli effetti essere considerati una sorta di medium: attraverso varchi nascosti, che loro però riescono istintivamente e spontaneamente ad attraversare, prelevano un po’ di luce dal cielo e la rendono accessibile a tutti sulla terra, dopo averla racchiusa con le loro mani in quel guscio speciale che è l’opera d’arte.
La loro funzione è, tutto sommato, simile a quella degli sciamani in alcune società arcaiche, come quelle dell’Asia centro-settentrionale o dall’America del Nord.
Compito degli sciamani è togliere il malessere alle persone e alla società stessa, malessere la cui origine è data dalla perdita dell’anima e da principi nocivi che ne hanno occupato il posto. Lo sciamano avrà dunque il duplice compito di far ritrovare l’anima e, dunque, scacciare le negatività che portano al decadimento del singolo, come dell’intera comunità: «…compito che rende necessario il viaggio nell’altro mondo presso gli dei, allo scopo di chiedere il loro appoggio, presentare i sacrifici e le offerte e ottenere la liberazione dell’anima, viaggio ascensionale che lo sciamano effettuerà facendo rullare il tamburo fino a raggiungere lo stato di trance, e arrampicandosi su una betulla.» (1).
Non è difficile rilevare le affinità della pratica sciamanica con quella artistica, sia per quanto riguarda l’uso di strumenti musicali per ottenere uno stato alterato di coscienza, sia per quanto riguarda lo stile di vita ricco di rituali e simboli che altro non servono se non a mettere in contatto lo sciamano/artista con il mondo sovrannaturale.
La differenza principale fra le due figure forse è da vedersi nel fatto che il primo è pienamente padrone delle sue facoltà psichiche e delle tecniche per risvegliarle in virtù della sua predisposizione innata; mentre l’artista è padrone della tecnica ma non sempre ha un reale controllo sulla sua ispirazione, la quale infatti va e viene secondo ritmi e flussi di energia che per lo più esulano dalla sua volontà. Anche questa differenza tuttavia, se consideriamo la vita e l’opera di artisti veramente eccezionali (Dante, Leonardo, Mozart…) sembra scomparire e così, di fatto, nella nostra cultura i grandi artisti possono essere assimilati ai potenti sciamani delle culture tribali.
La loro arte è la nostra medicina.
Il silenzio degli angeli
Gli artisti vanno aiutati, incoraggiati e gratificati, altrimenti si spengono lentamente, come un fuoco a cui nessuno aggiunge altra legna. Lasciati soli, ad affogare nell’indifferenza non servono a nulla: né all’arte, né a sé stessi, né alla comunità a cui appartengono.
A dispetto della buona volontà degli artisti, le sorgenti da cui attingono la loro ispirazione, ahinoi, talvolta seccano. O, semplicemente, l’artista perde la spinta e la determinazione a ripetere il suo viaggio che, non di rado, è insidioso e sempre comunque faticoso.
La perdita di ispirazione è spesso conseguenza della perdita di motivazione, e questo avviene solitamente quando l’artista occupa una delle due estremità del suo possibile destino: o quando ha troppo successo, o quando ne ha troppo poco.
Ogni artista consapevole di questi rischi deve dunque porre un’attenzione speciale alla salvaguardia della sua motivazione, più che della sua ispirazione, perché la prima conduce alla seconda.
Questo induce a guardare da una prospettiva diversa l’atteggiamento vagamente narcisistico che tanto frequentemente si riscontra negli artisti.
A volte può sembrare che siano sempre in cerca di riconoscimenti e gratificazioni perché hanno un ego ipertrofico. In realtà ne hanno bisogno per essere continuamente motivati a “mettersi in viaggio”. Senza motivazione spesso non ce la fanno ad innescare quel processo psichico necessario per aprire il varco da cui l’energia creativa si materializza sotto forma di ispirazione, e che tramite loro viene cristallizzata nell’opera d’arte e consegnata alla terra e ai suoi abitanti.
Niente riconoscimenti significa niente motivazione, significa niente varco psichico, significa niente opera d’arte, significa niente cura a disposizione di tutti.
Ossia nessuno porterà più acqua pura al villaggio e tutti si dovranno accontentare di quella ristagnante delle paludi.
Come si vede, a isolare gli artisti ci rimettiamo tutti.
In una società sana dovrebbe essere compito delle istituzioni dare le giuste opportunità agli artisti che danno prova di essere portatori di un messaggio speciale, ma in questa società degenerata viziata da ideologie che rasentano la patologia e la nevrosi come mai prima nella storia umana, non c’è nemmeno da sperarlo.
Oggi solo esseri superiori, invisibili e ultraterreni, che hanno davvero a cuore il destino della nostra povera razza, e speriamo ci siano davvero, possono intercedere a favore dell’arte.
Oggi gli artisti possono confidare soltanto su supporti angelici, per continuare a esistere. Vista l’agonia della vita artistica e culturale nel nostro paese si potrebbe allora pensare che gli angeli non esistano. Invece io sono più propenso a credere che esistono, ma ci hanno abbandonato.
Troppe volte abbiamo dimostrato di essere una causa persa, di essere ostinatamente attaccati all’effimero e di non voler cambiare nonostante le molte promesse fatte.
Una enorme quantità di persone ha accettato l’ottusità e l’uniformità dei gusti come dimensione primaria dell’esistenza, e così gli piace, è appagata. E quando qualcuno non sente il bisogno di migliorare la sua condizione, nessuno ha il diritto di costringerlo, neppure gli dei.
Per questo semplicemente si sono messi in disparte e ci osservano in silenzio. Privati del loro sostegno i primi a languire, sommersi dalla spazzatura culturale che è diventata l’alimento più diffuso e ricercato dai più in quest’epoca, sono i veri artisti, i naturali costruttori di bellezza, i portatori di verità… i quali talvolta si vendicano dell’indifferenza degli spiriti rivolgendosi allora verso le forze più oscure, dando così vita a espressioni artistiche talmente corrotte e degenerate da far pensare che abbiano attinto più dalle viscere dell’inferno che dalle sorgenti del paradiso.
Si aprono così quelle fasi in cui predomina un’arte degenerata, intrisa di rabbia, violenza, di esempi negativi e, se consideriamo alcune delle più significative opere o mode di questi ultimi anni, si direbbe proprio che ci troviamo in una di queste fasi.
Ma io non penso che potrà durare per sempre, a nessuno – neppure ai più arrabbiati – piace, dopotutto, vivere soffrendo e andare incontro a tormentose agonie. Credo che quella attuale sia soltanto una fase dominata dal rancore degli sciamani verso gli dei da cui si sentono abbandonati.
Il fatto è che finché durerà questo impasse a progredire sarà soltanto la decadenza civile e culturale, con tutte le sue pesanti conseguenze. Non è neppure detto che il braccio di ferro si risolverà a nostro favore, forse, semplicemente, è terminato un ciclo e tutti gli sforzi per cercare di cambiare il nostro destino sono inutili.
Queste sono le parole di Gerald Wilkinson, il Direttore del Consiglio nazionale della Gioventù indiana, un indiano Cherokee che ha però studiato alla Sorbona:
Non basteranno le parole perché la gente capisca il significato della vita. È forse questa la ragione per cui l’uomo occidentale studia tanto ma conosce così poco. Forse è questo il motivo per cui la sua civiltà deve crollare prima che lui sappia cosa le sta succedendo. È forse questo il motivo per cui non può, o non vuole, cambiare il suo modo di vivere finché il suo modo di vivere non lo farà cambiare. Pensa di poter cambiare la sua vita cambiando le sue parole. È forse questa la sua vera lingua biforcuta. (…) Ora tutto sta giungendo al termine. Forse sarà un olocausto e forse no. Il modo in cui la gente lo gestirà deciderà come il mondo verrà ricomposto. Ora quando si parla di distruzione della terra si parla di stati politici e sistemi sociali e atteggiamenti psicologici. Non si sta parlando della fine della vita. Rimarranno gli uomini e torneranno ad imparare a vivere. Chi sopravviverà? Quelli che sono vicini alla terra, i custodi del suolo, che hanno imparato la lezione della terra, che hanno la saggezza della terra, che hanno imparato a sopravvivere. Loro sopravvivranno. (…) Quello che sta giungendo al termine è una perversione della vita, un cancro. Talvolta, per salvare la terra, certe cose – che stanno distruggendo la terra – devono essere distrutte. È un processo naturale. Né tu né io possiamo farci nulla. Quando le società diventano troppo malate o stanche per vivere, muoiono. Così come muore una pianta. Ora nessuno può sapere quel che succederà dopo che tutto andrà a rotoli. Nemmeno nelle profezie. Non è che qualcuno possa starsene lì a vedere. (…) E forse attraverso questo saremo capaci di creare un nuovo mondo, un mondo di esseri umani. Esiste un altro mondo. Un altro mondo sta arrivando. (2)
E io voglio credere che in questo nuovo mondo gli artisti occuperanno posti di rilievo e la ricerca dell’ispirazione sarà materia insegnata a scuola, prima dell’inglese e dell’informatica, semmai quest’altre due avranno ancora un senso.
L’attualità non mi conforta, ma continuo comunque a pensare che in questo momento, proprio ora, ci sia ancora speranza. L’arte può ancora disintossicarci dai veleni dal capitalismo e dal fetore dei media di massa, ma occorre agire in fretta e non lasciare che questi siano soltanto discorsi sulla carta.
Una nuova specie di partigiani dovrà nascere: coloro che lotteranno nel quotidiano, nelle piccole cose, contro la dittatura del brutto e i pretoriani del nulla, che ormai sono ovunque e controllano ogni espressione di civiltà: la cultura, la politica, la religione…
È inutile aspettarsi risultati dalle grandi ideologie, dai leader che governano il mondo e dai grandi movimenti di massa… tutte situazioni che paiono ricchissime di promesse di mutamento ma che poi, di fatto, assolvono soltanto al bisogno quotidiano di allevare illusioni.
L’unica rivoluzione possibile parte dal basso, da come si usa il proprio tempo, da quali abitudini si adottano, da come si nutre la propria anima, da quali sogni si coltivano, da come si costruiscono i propri rapporti sociali, da quale stile di vite si sceglie…
Se questo non succederà allora siamo destinati, come altre culture prima della nostra, ad estinguerci. L’ultima riflessione la traggo dalle parole della filosofa indiana Vimala Thakar (3), proferite nel 1994 durante un incontro con studenti e professori dell’Università di Brandbu (Norvegia):
Non è tutto oscuro malgrado le guerre, le contese, le perdite di sangue e le brutture che ci circondano. Ci sono anche raggi di sole e di speranza. Penso che gli esseri umani in quanto razza vogliano condividere la sofferenza degli uni e degli altri, così come le loro ricchezze, ma non sanno come fare e vanno a tentoni in questa ricerca. (…) Dobbiamo tracciare un cammino attraverso il caos, lo spargimento di sangue e le guerre vergognose che continuano. Vedo all’orizzonte della coscienza umana l’emergere laborioso di una nuova cultura, di una nuova cultura umanista, di una nuova cultura umana globale, di una spiritualità globale. È la scienza della vita e l’arte di vivere. Un impegno della razza umana a praticare la mutualità e la reciprocità, piuttosto che le identificazioni e le identità esclusive. So che l’Europa è oggi in una situazione esplosiva, voi avete la sensazione che non ci sia altro che caos e anarchia, ma io da qui osservo le correnti sotterranee che stano emergendo, non attraverso partiti politici o leaders conosciuti, ma gruppi sconosciuti e anonimi. Sono in corrispondenza e in contatto con più di 60 giovani gruppi di questo tipo in diverse regioni dell’India; provano a costruire qualcosa senza prestare attenzione alla distruzione che li circonda. Sono occupati a costruire per domani, soffrire oggi per costruire l’avvenire.
È tempo di scegliere in quale mondo vogliamo vivere la parte restante della nostra vita, quella delle generazioni future e, caso mai dovessimo ritornare, la prossima.
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